Quando la mattina uscivo di casa non potevo fare a meno di gettare un occhio giù verso la baia di Catania. Vedere il riverbero del Sole sull'acqua o le onde frangersi sulla spiaggia era la prima cosa con cui volevo riempirmi gli occhi ogni mattina.
Mi chiamo Manuel e sono nato alle pendici dell'Etna, "a muntagna" la chiamano con amore i catanesi. È il più maestoso dei vulcani del Mediterraneo. Dai suoi 3300 metri puoi rotolare giù direttamente nel mar Jonio che bagna le coste catanesi.
Ho trascorso le dolci estati della mia infanzia raccogliendo e pescando tutto quello che si annidava nella moltitudine di anfratti della scogliera vulcanica, e anno dopo anno il mare mi è entrato nel sangue come una linfa vitale.
Quando a Catania ti tuffi in mare senti alle spalle lo sguardo della montagna, ti giri e la vedi lì in tutta la sua imponenza.
A quel tempo ancora non lo sapevo, ma l'Etna ha un gemello ancora più grande e maestoso, ma che in fondo è identico in tutto: il monte Fuji. Anche lui un vulcano imponente e solitario che affonda le proprie radici direttamente nel mare dell'isola su cui si erge: il Giappone.
Non sono sicuro che tutti queste cose che abbiamo in comune possano portare due popoli così lontani geograficamente e culturalmente a convergere su un punto in comune: l'amore viscerale per il proprio mare. Lo amiamo così tanto che siamo tra i pochi popoli a cibarsi dei suoi frutti esattamente come vengono pescati: freschi e crudi. Si, i Siciliani mangiano pesce crudo da molto, molto tempo prima che arrivassero da noi i primi sushi bar o che nei ristoranti di mare si servissero i "primi" piatti di cruditè.
Le patelle direttamente raccolte e mangiate sugli scogli. O le telline giù tra la sabbia della "playa", la spiaggia di Catania. Per non parlare dei ricci o dei fasolari. E le alici marinate o le tartare di tonno, cipolla rossa e arancia.
Da ragazzini si andava alla Pescheria, il mercato ittico degli Archi della Marina, e con tremila lire compravamo un mucchio di gamberi ancora vivi, un limone e, seduti al Sole, pulivamo e mangiavamo gamberi più dolci della famosa pasticceria siciliana.
Ma un cibo su tutti ci rende assolutamente fratelli e sorelle con il popolo Giapponese: le alghe. Loro sono i più grandi maestri e consumatori di alghe al mondo, ma noi Catanesi avevamo la nostra alga: il Mauro. Lo si comprava da piccoli banchetti sul lungomare di Catania, o al porticciolo di Ognina, e lì sul momento si spremeva sopra un po' di limone e si mangiava questo boccone di mare! Come direbbero i Giapponesi, era un concentrato di "umami". Il mare ti scoppiava letteralmente in bocca.
Oggi purtroppo quest'alga è quasi scomparsa.
Con questo background, con il mare, il vulcano, il pesce e le alghe al mio salto nel mondo del sushi serviva un ultima cosa: un viaggio in Giappone. Un viaggio che arrivò molti anni dopo, una volta trasferitomi definitivamente a Roma.
Quel viaggio in Giappone lo rivivo spesso nei miei ricordi come un vero e proprio punto di svolta. Il fascino verso la cucina e la cultura giapponese si trasformò presto in un assoluto rispetto. Ho amato la profondità della loro filosofia in cucina in cui uomo e natura si incontrano in un abbraccio amichevole. E questa amicizia la si può percepire nei loro piatti, dove armonia, umiltà e rispetto diventano veri e propri ingredienti in grado di portare i sapori verso vette altissime.
Al mio ritorno in Italia ho deciso che volevo provare a ritrovare quell'armonia attraverso le mie mani.
Anno dopo anno vedevo che anche se pur piccoli e timidi, muovevo i miei passi nella giusta direzione. Di strada ne ho ancora tanta da fare perché il bello dei viaggi non è la meta, ma il viaggio stesso.
Manuel LS
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